mercoledì 5 gennaio 2011

INCHIESTA SULLA CRISI DELL’AGRICOLTURA ITALIANA. A ciò si aggiunge il peso di un’amministrazione più politica che tecnica (2° Parte)

“Noi abbiamo già fatto al riguardo dolorose e istruttive esperienze. Abbiamo cominciato con la riforma fondiaria “di stralcio”, una riforma assurda nella sua concezione influenzata dal vecchio mito di contadinizzazione della terra, che ci ha portato (sottraendo oltre un migliaio di miliardi a ben più impellenti nostre necessità di supporto e di propulsione) a provocare un mastodontico processo di affollamento della terra e di frantumazione delle unità produttive maggiori proprio nel momento in cui, sotto la spinta di inarrestabili fattori economici, si iniziava quel vastissimo movimento di sfollamento del settore che ancora oggi è in corso, e mentre in tutti i paesi agricoli della terra i governi, obbedendo agli imperativi del progresso tecnico, promuovevano la dilatazione delle unità produttive per aprire la strada a redditizie meccanizzazioni aziendali.
“Alla riforma “di stralcio” ha fatto seguito il piano verde. E anche qui sono chiare le influenze delle ideologie politiche. Concepito come un piano di incentivazione economica e di sviluppo dell’intera agricoltura, esso è stato, nella sua realizzazione ingombrato di discriminazioni e deviato verso finalità prevalentemente assistenziali.
“Poi sono venute quelle proposte della Conferenza per i problemi del mondo rurale e dell’agricoltura che hanno cercato, con un’ambigua condanna del sistema mezzadrile, di porre in crisi una delle forme di conduzione socialmente più progredite ed economicamente più utili.
“Infine, oggi, ci troviamo di fronte a un progetto di riforma delle strutture agrarie in cui sono evidentissime le influenze delle mitologie politiche.
“Alcune disposizioni di tale progetto tendono a rinvigorire il processo di contadinizzazione della terra iniziato con la riforma fondiaria. Tendono cioè a comprimere l’economia agricola al livello delle piccole unità coltivatrici, in netto contrasto con lo spirito della nostra civiltà e con le norme della Costituzione, le quali dovrebbero garantirci un’economia dinamicamente aperta a tutte le possibilità del progresso individuale e sociale.
“Altre disposizioni manifestano una chiara tendenza verso pesanti forme di dirigismo e di statalismo, prevedendo la creazione di una rete di enti definiti di sviluppo e concepiti come strumenti di attuazione di una rigida programmazione statale. Enti destinati a determinare un processo di burocratizzazione del settore e di soffocamento della vitalità dell’impresa privata.
“E va rilevato ancora come a tali enti si attribuisca la facoltà di amputare le proprietà medie e maggiori per ingrossare le unità minori con esse confinanti. Facoltà concepita senza alcun limite di tempo e di luogo e perciò destinata a creare una minaccia permanente e paralizzante su buona parte dell’imprenditorato italiano.
“Di fronte a tali indirizzi come può rimanere indifferente chi ritiene che soltanto la superiore capacità costruttiva di uomini responsabilmente liberi possa consentire di realizzare quel migliore domani verso cui si rivolge l’unanime speranza?”.
A proposito di questi enti, citati dal presidente Gaetani, ricorderemo ch’essi sono quattordici: Opera per la valorizzazione della Sila, Ente autonomo del Flumendosa, Ente nazionale per le Tre Venezie, Ente per la irrigazione in Puglia e Lucania, Opera nazionale combattenti, eccetera. Incaricati di un programma eterogeneo e di grave responsabilità, hanno saputo fin da principio attirarsi i peggiori giudizi. Luigi Einaudi li definì: “Scatoloni vuoti, ovverossia parole magiche, che hanno gran voga nel momento presente in Italia e compiono opere di persuasione a legiferare dannosamente”. E Agostino Bignardi: “Carrozzoni di per sé costosi, con imprecise facoltà d’intervento, con sfuggenti responsabilità e un’unica chiara volontà: quella di volere, sempre volere, fortissimamente volere quattrini pubblici da spendere Dio sa come”.
Anche questi enti di sviluppo rappresentano uno degli apparati amministrativi della nostra agricoltura: espropriano terre, le assegnano, operano trasformazioni fondiarie, organizzano cooperative, hanno compiti di assistenza colturale e zootecnica,e anche sociale e d’istruzione professionale, e così via. Certo, sulla carta, ogni ente, ogni apparato, ogni sindacato, ogni pedina sull’immenso e ricco scacchiere ha una sua funzione, una sua ragione. Ma è poi nel gioco che avviene la confusione. Di questi enti di sviluppo è stato scritto per esempio, da un avversario del centrosinistra, che sono “una congrega di gente che vogliono posti senza concorsi, stipendi senza limiti di leggi, carriere senza inceppamenti di regole, bilanci con controlli difficili e nebbiosi”; mentre un socialista, l’onorevole Cattani, pur ammettendo le disfunzioni, ne intravede un migliorato uso nel quadro regionale futuro: “L’ente di sviluppo verrà a essere non il mostro temuto, e non il taumaturgo invocato, ma un organo di intervento straordinario dello Stato, lasciando alla regione tutti i compiti ordinari”.
Da due anni, intanto, da questa politica di mostri e taumaturghi è nato il Piano verde. Promosso e studiato da Paolo Bonomi, approvato dal governo presieduto da Segni, esso fu descritto e propagandato nelle campagne come il definitivo toccasana di ogni dolore. In campagna ci credettero, e l’attesa fu vivissima. I1 Piano verde prevede uno stanziamento in cinque anni (1960-61 / 1964-65) di cinquecentocinquanta miliardi, di cui circa quattrocentoventi direttamente utilizzabili dagli agricoltori. Fatte le operazioni, e considerato che le aziende agricole in condizione di essere ammesse alle concessioni sono almeno tre milioni, consegue che ogni azienda otterrebbe all’uno ben ventisettemila lire. Ma le iniziative di finanziamento riguarderanno la costruzione di case e di strade, l’esecuzione di bonifiche e opere d’irrigazione, eccetera, favorendo cioè un numero di aziende modesto rispetto al totale: si dice quarantamila. Ora, come avverrà questa scelta, che molti hanno definito discriminazione? Un articolo del Piano spiega che il ministro darà annualmente le direttive specifiche di attuazione e potrà modificare alcuni criteri e spostare la ripartizione delle spese. In altre parole, il ministro darà i quattrini a chi gli pare, a chi gli è simpatico, a chi (dicono gli avversari) gli serve. E fra l’azienda agricola e il ministro c’è l’intermediario di sempre, la Coltivatori diretti.
I1 Piano verde è stato duramente criticato da destra e da sinistra. Nelle campagne, in generale, ci si chiede ancora oggi dove sia e se ci sia, mentre serpeggia un rinnovato e perciò più profondo sentimento di scoraggiamento e sfiducia. L’attesa del miracoloso colpo di bacchetta magica aveva inflazionato presso gli Ispettorati le domande di contributi degli agricoltori per partecipare in qualche modo alla festa, le quali si erano aggiunte alle altre molte migliaia da tempo giacenti in attesa di evasione, ovvero di fondi. Oggi si parla di caos. “Non si sa da che parte cominciare”, ci ha detto un funzionario di un ispettorato, ed è comprensibile, poiché giustizia vorrebbe che i contributi venissero dati per primi a coloro che per primi li avevano chiesti, e cioè negli anni precedenti lo scatto del Piano verde.
Così, trascorso un certo periodo, si può già affermare che il Piano destinato a risollevare le sorti dell’agricoltura italiana rischia il fallimento. Esso non solo non ha risolto i maggiori problemi di questa nostra agricoltura, ma non ne ha nemmeno affrontati. Il problema degli ortaggi, il problema del riso, quello del vino, del bestiame da carne, delle barbabietole, della canapa, del grano duro e del grano tenero, il problema dell’olio e quello del credito agrario. E via elencando, sono tuttora grandi pagine bianche, sulle quali gli amministratori non sono riusciti a scrivere niente in molti anni. Basti pensare alle sofisticazioni che ebbero un freno soltanto in seguito a violente campagne di stampa e alla mobilitazione dell’opinione pubblica. E oggi il vuoto continua.
Crisi, dunque, dell’agricoltura? La produzione non ha subito squilibri profondi, anche se la fuga di braccia dalle campagne la minaccia forse già seriamente; la qualità dei prodotti è generalmente migliorata. La crisi è nella miseria dei prezzi che non ripagano il produttore: crisi economica e non produttiva. Non da carestie è nata la crisi dell’agricoltura italiana, e nemmeno da sovrapproduzione, bensì da un sistema di amministrazione politica che, come ha detto un censore competente, “ha già suscitato l’ilarità di tutta l’Europa”. Il presidente della Confagricoltura mi diceva: “La crisi deriva da vari fattori, ma, anzitutto, da un fatto politico”. Ed è questa la sensazione precisa che si ricava parlando di agricoltura negli uffici, nelle sedi, nei corridoi dei grandi palazzi umbertini della capitale.
L’uomo che si trova al centro di questa politica agraria nazionale, l’onorevole Bonomi, ha sempre e strenuamente difeso la sua opera più su di un piano politico che tecnico: motivo costante della sua polemica, infatti, è lo sforzo, felicemente compiuto, di sottrarre al comunismo l’elettorato agricolo. Noi gli abbiamo chiesto la sua opinione tecnica sull’agricoltura italiana d’oggi. Questa la sua risposta.
“Il rapido evolversi delle situazioni spinge decisamente l’agricoltura italiana verso un nuovo assetto. La progressiva attuazione del Mercato comune ne europeizza dimensioni, problemi e prospettive: l’esodo dalle campagne impone e consente radicali e razionali revisioni delle strutture.
“Per lunghi decenni l’eccesso di popolazione influenzò negativamente l’economia agricola nazionale, sulla quale venne rovesciato il peso di tutta la mano d’opera che non riusciva a trovare economica utilizzazione negli altri settori produttivi. Il mondo rurale dovette sostenere l’onere dell’imponibile di mano d’opera, attraverso il quale si assicurò almeno un minimo di lavoro a centinaia di migliaia di persone: dovette finanziare, attraverso l’inflazione dei famigerati elenchi anagrafici, l’assistenza e la previdenza sociale, non solo per i lavoratori agricoli, ma per quanti non beneficiavano di altre forme di protezione sociale: dovette, per assorbire nella misura più larga la forza lavorativa disponibile, mettere a coltura terreni che economicamente non sarebbero stati da coltivare, operare su aziende di dimensioni minime, sostenere, dove proprietà e imprese erano disgiunte e maggiore era la fame di terra, canoni d’affitto economicamente e socialmente assurdi.
“Tutto questo cambia. La dilatazione delle attività industriali che caratterizza questo periodo della vita europea chiama e assorbe tutta la mano d’opera disponibile. I giovani abbandonano le case, così spesso malsane, dei loro genitori, e vanno verso una fatica meno pesante, una vita più comoda, una remunerazione sicura e assai più consistente. Vi sono regioni italiane nelle quali non più l’uomo cerca disperatamente la terra, ma la terra attende invano il lavoro che la fecondi...”.
Sulle diagnosi di massima, sono tutti più o meno d’accordo: del resto, quando un infermo muore è sempre, più o meno, per collasso cardiaco. E le terapie, quando si sta sulle generali, non sono mai criticabili, infatti:
“Così stando le cose, sembra logico restituire al bosco o al pascolo le terre la cui coltura non è economicamente conveniente, e sembra logico un riordino fondiario che gradatamente elimini quella polverizzazione e quella dispersione delle aziende che hanno sinora impedito il fecondo rinnovamento della vita rurale in vaste zone del nostro paese. L’era della piccola proprietà sta per concludersi...”.
L’onorevole Bonomi mi ha parlato a lungo su questi temi, nel suo salone studio di Palazzo Rospigliosi. Sottile, misurato, attento. Non ha voluto che registrassi su nastro l’intervista, ha preferito inviarmi una nota scritta. Così questa continua sul Mercato comune: “Non si deve più ragionare, calcolare, prevedere italiano, ma ragionare, calcolare, prevedere europeo e cercare altri sistemi di protezione della produzione”. E come prima, son cose che trovano tutti d’accordo. “La necessità di una programmazione comunitaria che sia la risultante armonica delle programmazioni nazionali appare assolutamente indispensabile”. Come negarlo? E “nessuno si culli, peraltro, nella illusione che in seno alla Comunità europea le sorti dell’agricoltura possano riprendere quota nei confronti degli altri settori economici. In tutti i paesi il divario fra reddito agricolo e redditi extragricoli si allarga sempre più, perché al costante incremento dei redditi industriali e dei redditi di intermediazione non si accompagna un elevarsi parallelo dei redditi dell’agricoltura, che si accrescono in misura così limitata da non coprire talvolta la fatale perdita di valore della moneta...”.
Sì, le diagnosi di massima. Anche queste sono facilmente comprensibili dai profani, dal vasto pubblico, come dall’altro lato lo sono le questioni pratiche dei contadini. Ma fra i due discorsi c’è un’amara differenza: i contadini patiscono, sulle loro questioni, mentre le grandi diagnosi sono fatte a freddo. E i contadini rimangono in attesa delle grandi terapie. Ma quali? Davvero non ne esistono? L’agricoltura italiana, a sentirla da Roma, sembra sia piena di maghi, di grandi tecnici: tutti incapaci, dunque? Oppure qualcuno ha da suggerire, finalmente, qualcosa di pratico?

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